Con la sentenza n. 268 del
16.12.2020, la Corte Costituzionale afferma che,
laddove il lavoratore non abbia accettato una proposta conciliativa di importo
pari o superiore a quello riconosciuto nella sentenza, il Giudice non può
condannarlo alla refusione delle spese di lite in favore della parte datoriale,
ma ha soltanto la facoltà di compensare le stesse.
Il caso affrontato
Il lavoratore ricorre giudizialmente
al fine di ottenere delle differenze retributive e - a fronte della
disponibilità alla transazione espressa dalla società in sede di costituzione -
il Giudice formula, in prima udienza, una proposta conciliativa dell’importo di
€ 2.500,00 con compensazione delle spese.
A seguito della mancata accettazione
da parte del lavoratore, il Tribunale accoglie la domanda per la minor somma di
€ 900,00, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali in
favore della parte datoriale.
Detta pronuncia viene appellata dal
dipendente anche per il mancato riconoscimento delle spese, pur essendo lo
stesso risultato vittorioso.
La Corte d’Appello di Napoli - investita
della questione - solleva un problema di legittimità costituzionale dell’art.
91, primo comma, c.p.c., nella parte in cui consente di condannare alle spese
il lavoratore, sebbene vittorioso, che non abbia accettato una proposta
conciliativa di importo pari o superiore a quello riconosciuto nella sentenza.
La sentenza
La Consulta rileva, preliminarmente,
che la norma censurata dà rilievo, quale legittimo criterio di regolamentazione
delle spese processuali, alla condotta della parte che ha determinato
un’inutile prosecuzione del giudizio.
Ciò è espressione del principio di
causalità che, a differenza di quello “oggettivo” della soccombenza,
attribuisce rilievo anche a determinate condotte contrarie al dovere di lealtà
e di probità.
Per la sentenza, la predetta norma – che si risolve in una “sanzione” per la
parte che agisce in giudizio – non è, tuttavia, compatibile con un processo,
come quello del lavoro, che si caratterizza per una serie di norme di favore
per il lavoratore, volte a tenere in considerazione la sua strutturale
debolezza, anche sotto il profilo economico.
L’art. 91 c.p.c., infatti, elevando
il rischio della lite per il prestatore finirebbe per indurlo a non insistere
nel chiedere integralmente quanto dedotto nella domanda, a causa del rischio
dei costi che sarebbe tenuto a sopportare qualora, accolta parzialmente la
domanda, l’esito della controversia fosse meno favorevole (o equivalente) al
contenuto della proposta conciliativa.
Secondo la Corte, nel rito del
lavoro trova, invece, applicazione l’art. 420 c.p.c., che attribuisce al
giudice il potere di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta
conciliativa o transattiva dallo stesso formulata all’udienza di discussione ai
fini della statuizione sulle spese di lite.
Detta disposizione, tuttavia, non si
traduce altro che nella possibilità di compensare legittimamente, in tutto o in
parte, le spese anche ove non ricorrano i presupposti di cui all’art. 92,
secondo comma, c.p.c. (soccombenza reciproca o novità delle questioni trattate).
Su tali presupposti, la Corte Costituzionale dichiara inammissibile la questione
sollevata, non trovando applicazione l’art. 91 c.p.c. nel caso sottoposto al
giudice rimettente.